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venerdì 18 settembre 2015

ESERCIZI DI AUTOESEGESI





esercizi di autoesegesi
La poesia “Alba a Fonte Avellana”, che ho postato qualche giorno fa, in realtà era nata in una forma un po’ diversa.
Questa:
Tutto
fosse così semplice
come è pulito l’orlo delle foglie
aggredite dal vento
come è spaziosa la luce
sul diapason dei tronchi.
Dov’è la fame?
Si è fermato il sangue
l’indaco ha invaso la roccia.
Dove era la voce ha gemmato
il silenzio.
Le differenze non sembrano sostanziali, ma in realtà rileggere le due versioni mi chiarisce molte cose che sto cercando di inseguire negli ultimi tempi.
Innanzi tutto, la poesia è nata da una sensazione acustica: svegliarmi una mattina presto, nel bellissimo luogo citato dal titolo, e sentire il vento tra le fronde degli alberi. Quel che mi ha colpito, in particolare, è stato il suono in sé, così diverso da quello a cui sono abituato.
In città, il vento è sempre incanalato tra due pareti verticali, più o meno alte. La compressione gli conferisce una tonalità acuta, petulante, a volte quasi isterica. Qui, invece, si trattava di un’enorme massa d’aria, che scendeva dritta dai fianchi del monte Catria e andava ad investire un vasto fronte di boschi, mettendolo in risonanza come uno smisurato diapason. Il risultato era potente, maestoso, simile a un colossale bordone d’organo che si estendeva dal grave all’acuto, senza soluzione di continuità.
Allo stesso tempo, mi colpiva la nudità monastica del luogo, il silenzio su cui quel suono si installava. Tutte sensazioni nuove, o perlomeno dimenticate da lungo tempo. Sono partito da questa associazione di idee e la poesia è venuta fuori come la vedete nell’originale, in versi liberi.
Però, c’era qualcosa che non andava.
Innanzi tutto, il primo e l’ultimo verso, con quegli enjambement così ostentati, quasi civettuoli, quelle parole isolate nel verso. No, proprio non ci siamo.
Poi, a ben guardare i versi sono liberi fino a un certo punto. “Com’è pulito l’orlo delle foglie” è un endecasillabo perfettamente canonico; “aggredite dal vento” e “sul diapason dei tronchi” sono settenari; “dove era la voce ha gemmato” è un novenario, per di più con due evidenti ricordi pascoliani (“Dov’era la luna? Ché il cielo / notava in un’alba di perla”, da L’assiuolo, e “Gemmea l’aria, il sole così chiaro”, da Novembre). Per non parlare di “Dov’è la fame? / Si è fermato il sangue”, che è un altro endecasillabo, sebbene spezzato in due emistichi.
Insomma, c’era una tensione non risolta tra verso libero e forme regolari.
Allora ho riorganizzato la poesia. Ho tolto i due enjambement, all’inizio e alla fine, e ho riarrangiato i versi in due quartine precedute da un verso introduttivo. Oltretutto, ora entrambe le strofe presentano una simmetria interna: la prima con l’anafora del “come”, la seconda con i tre versi dalla sintassi parallela (“si è fermato”, “ha invaso”, “ha gemmato”), del tutto conclusi in sé stessi. Ho anche eliminato la ripetizione del “dove”, lasciando solo il primo dei due.
Ora il tutto mi sembra più solido, più strutturato. Più classico, in un certo senso. E anche più rispondente al tema, che è un’esperienza di quiete, bellezza, oserei dire di misticismo.
Ordine, regolarità, struttura, sono idee che ritornano in vario modo nelle cose che ho scritto ultimamente. Il misticismo in effetti no, ma chissà.
(Poi, quale delle due versioni sia la più riuscita, lo lascio al giudizio del lettore).
Pubblicato in critica letteraria, poesie mie

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