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lunedì 28 dicembre 2015

ANNA MARIA BONFIGLIO





“Amore, oggi il tuo nome/al mio labbro è sfuggito/come al piede l’ultimo gradino…” Risiede in questi versi l’essenza del silenzio. Il nome sfuggito, la parola che lo anima è il peccato “imperdonabile”; il “baratto” del sentimento a favore della parola è un autoaccusa che si scioglierà solo “nell’immortale silenzio”. Questo di Cristina Campo è un discorso per ellissi, un territorio in cui la vera ricchezza è tutto ciò che manca. D’altra parte non disse lei stessa che “aveva scritto poco e che meno avrebbe voluto scrivere”? L’eccedenza è quasi una paura, il mostrarsi più del necessario è in contrasto con la sua scelta esistenziale ed infatti fra la sua vita e la sua opera non esiste cesura, perché per Campo tra vita e pensiero, tra vita e arte non solo non deve esserci contrasto ma deve instaurarsi una vera e propria identificazione. Tutto ciò si sostanzia in una “Assenza” che è incarnazione di una realtà più profonda dell’apparenza, rivelazione del vero significato delle cose, che non sta in quello che rappresentano ma in ciò a cui rinviano. Nel percorso verso questi rimandi lo sguardo si allunga fino ad arrivare a percepire il nucleo dei simboli che in essi risiedono. “L’incredulità nell’onnipotenza del visibile” è atteggiamento consustanziale alla scrittrice, è pratica che non abbandona, è la centralità di una poetica che guarda al mondo alluso, quello della fiaba, dei vangeli, della poesia, dove la “parola” è rivelazione del trascendente. “Che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?” Si chiede Cristina. E altrove dice: “Ci sono due mondi ed io vengo dall’altro”. Quello che unisce i due mondi è il simbolo e nella visione campiana il simbolo è fede in una Verità che parla attraverso di esso, è esperienza spirituale, esigenza di far combaciare la realtà naturale con una realtà sovrannaturale. Il “cosmo simbolico” di Campo, mutuato in massima parte dalla liturgia della messa latina prima e bizantina poi, è lo specchio del cosmo celeste, epifania che rinvia all’Entità Divina. Ma il simbolo è altresì annidato nel tessuto delle fiabe ed è l’universo della fiaba uno dei nuclei più significativi della poetica campiana, un universo esplorato sia con la stesura di racconti fiabeschi ispirati ai migliori favolisti dell’ottocento sia con accurati ed originali saggi. Il percorso dei personaggi delle fiabe viene da Campo assimilato a quello degli uomini: come i protagonisti di queste storie percorrono un cammino nel quale incontrano difficoltà, pericoli, fatiche che li porteranno ad una metamorfosi sia esterna che interiore, così il destino dell’uomo, che attraversa ogni sorta di prove per giungere ad un traguardo. Il simbolo della fiaba è il dolore per le prove a cui sono sottoposti i protagonisti, è l’allusione ad un destino intricato disegnato dalla Volontà Divina. “A un tappeto di meravigliosa complicazione, del quale il tessitore non mostri che il rovescio – nodoso, confuso – fu da molti poeti, da molti savi, assimilato il destino”. E disegni, trame, orditure, fili, intrecci sono spesso presenti nella simbologia delle fiabe il cui eroe è definito “Chi […] è certo di un’economia che racchiude tutti gli eventi e ne supera il significato come l’arazzo, il tappeto simbolico supera i fiori e gli animali che lo compongono.[…] il folle che ragiona a rovescio, capovolge le maschere, discerne nella trama il filo segreto, nella melodia l’inspiegabile gioco d’echi; che si muove con estatica precisione nel labirinto di formule, numeri, antifone, rituali comuni ai vangeli, alla fiaba, alla poesia”. Il tappeto è terra spirituale dalla quale innalzarsi per seguire la voce di Dio che col suo “flauto” chiama ed incanta. Il tempo che vive Cristina Campo è da lei definito “il tempo in cui tutto vien meno” ed è dunque nell’Assenza di tutto ciò che appare la spinta verso la dimensione spirituale che si compie nel silenzio.

HIROSHIMA 6 agosto 1945 “Città di cadaveri” di Yoko Ota.






“I giorni si susseguivano, immersi nella confusione e nell’incubo. Anche in un nitido giorno d’autunno senza nubi, sprofondavamo im una cupa penombra di tristezza e di silente caos. Non c’era scampo. Ogni giorno, attorno a me, persone come me morivano…Non sapevo quando sarebbe arrivata la mia ora. Ogni giorno mi tiravo i capelli più e più volte e li contavo per vedere quanti ne erano venuti via. Osservavo continuamente la pelle delle mie mani e dei miei piedi per vedere se cominciavano ad apparire le temute macchie…La mia mente era perfettamente lucida. Sapevo che per quanto orribili fossero le piaghe, non avrei sentito né dolore né bruciore. La bizzarria della malattia atomica, il suo aspetto lunare, erano un ulteriore inferno per le vittime. Dentro di me, come due grandi serpenti, si contorcevano il terrore di essere destinata a una morte che non capivo e l’irrefrenabile odio per la guerra. Per quanto abbattuta fossi durante la giornata, i due serpenti continuavano a contorcersi e a urlare dentro di me”.
Questa non è semplicemente una vivida descrizione letteraria, bensì, è la testimonianza di una persona che ha vissuto la tormentosa esperienza di trovarsi sospesa e impotente fra la vita e la morte senza poter fare niente, di una persona a cui è stata tolta la libertà di vivere, la libertà di agire.

Da "Memorie di una ragazza perbene" di Simone De Beauvoir






Io, almeno, ero emersa dalle tenebre; ma le cose intorno a me vi restavano affondate. Mi piacevano le storie che attribuivano alla grossa aguglia idee a forma di aguglia, alla credenza pensieri di legno; ma erano fiabe; gli oggetti dal cuore opaco pesavano sulla terra senza saperlo, senza poter mormorare; "sono qui". Ho raccontato altrove come a Meyrignac contemplassi sstupita una vecchia giacchetta abbandonata sulla spalliera di una sedia. Provai a dire al suo posto: "sono una vecchia giacchetta abbandonata". Non mi riuscì, e fui presa dal panico. Nei secoli trascorsi, nel silenzio degli esseri inanimati, presentivo la mia propria assenza; presentivo la verità, illusoriamente scongiurata, della mia morte.
Il mio sguardo creava luce; specie durante le vacanze mi ubriacavo di scoperte, ma a volte mi sentivo ròsa da un dubbio; lungi dal rivelarmi il mondo, la mia presenza lo deformava. Certo, non credevo che mentre dormivo i fiori del salotto se ne andassero al ballo o che nella vetrina, i ninnoli intrecciassero idilli. Ma a volte mi veniva il sospetto che la campagna familiare imitasse certe foreste incantate, che si camuffano quando un intruso le viola; sotto i suoi passi nascono miraggi, egli si smarrisce, boschi e radure gli nascondono i loro segreto. Nascosta dietro un albero, tentavo invano di sorprendere la solitudine del sottobosco.

Da "Memorie di una ragazza perbene" di Simone De Beauvoir





....Poi, con un candeliere in mano, salivo a coricarmi. Avevouna camera tutta per me; dava sul cortile, davanti alla legnaia, al lavatoio e alla rimessa, che conteneva, decadute come vecchie carrozze, una victoria e una berlina; la piccolezza di questa stanza mi rapiva; un letto, un cassettone, e, sopra una speccie di baule, il bacile e la brocca. Era una vera cella, proprio fatta sulla mia misura, come un tempo la nicchia in cui mi accovacciavo sotto la scrivania di papà. Benchè la presenza di mia sorella di solito non mi pesasse, la solitudine mi esaltava. Quando ero in vena di santità ne approfittavo per dormire sul pavimento. Ma soprattutto, prima di mettermi a letto, mi attardavo a lungo in finestra, e spesso mi alzavo per spiare il respiro pacifico della notte. Mi chinavo, affondavo le mani nella frescura di un cespo di lauroceraso; l'acqua della fontana colava chioccolando su una pietra verdastra; a volte una vacca batteva col suo zoccolo sulla porta della stalla; indovinavo l'odore della paglia e del fieno. Un grillo friniva, monotono, ostinato come un cuore che batte; contro il silenzio infinito, sotto l'infinito del cielo, sembrava che la terra facesse eco a quella voce dentro di me che sussurrava senza tregua; sono qui; il mio cuore oscillava dal suo calore vivo al fuoco gelido delle stelle. Lassù c'era Dio che mi guardava; accarezzata dalla brezza, ebbra di profumi, quella festa nel mio sangue mi dava l'eternità.

giovedì 17 dicembre 2015

AMAVA VAGARE






Amava vagare per sentieri misteriosi del bosco. La immaginazione lo aiutava e rivedeva contadini, pastori, guerrieri che li percorrevano per raggiungere mète diverse. Sorgenti emettevano piccoli lamenti. Il loro zampillare era bloccato da stalattiti ghiacciate durante la notte. Ma la vita del bosco si stava risvegliando; stirava le membra come una fanciulla soddisfatta dei suoi sogni. Un profumo di rami bruciati invadeva l’aria. Foglie secche scricchiolavano al suo passaggio. Respirava a pieni polmoni, il viso s’increspava a causa del freddo. Gli sarebbe piaciuto costruirsi un nido tutto per sé. Un pensiero lo fece meditare e si fermò. Chissà se nascemmo per fare due passi sterili e precari, spinti da una strana forza nel gioco cieco della vita che non avrà domani? Oppure tutto avrà alla fine un senso? Nella interiorità le ore, i giorni, gli anni si disgregavano e i nostri viali non sorridevano più. Sperava che le sue pupille fuggissero insieme al pianto che si scioglieva tanta era l’emozione e la profondità di quelle riflessioni! Decise di sospendere i sogni fino al termine dell’ultima folata di brezza. Tornarono le visioni di profondi abissi, le ansie e soffrì. Fu un effetto indescrivibile. Il sudore si gelava sulla pelle e perse i sensi. Fu un attimo. Si rialzò faticosamente. Percorse alcuni metri barcollando….Poi la vide. La valle si estendeva in tutta la sua dolcezza. Tutto era richiamo. Greggi di pecore stavano uscendo dagli stalli. Iniziava la transumanza. Dalla stalla lentissime e con saggia andatura le vacche si recavano al pascolo, dopo aver donato il loro contributo di latte. Liberate dal giogo andavano alla ricerca di erba nuova. I contadini preparavano gli attrezzi. Il cane uscì dal caldo della stalla. Cominciò il suo usato lavoroa guardia del gregge.
Questo era lo spettacolo che si stava recitando nella valle. Tutti, uomini, animali e natura presi da una calma, dolce frenesia.
Si fermò a riflettere. . Come aveva resistito a vivere laggiù in città? Meglio il profumo di sterco che giunge dalla stalla. Vita cittadina contaminata, obsolescenza della mente, spirito atrofizzato come se la melma non gli permettesse di respirare. Freschi anni trascorsi a difendersi dai mali interiori senza riuscire a evolvere. Forze negative che lo invadevano con tentazioni pagane. Consumismi estremi che plagiavano; false storie d’amore che stordivano, ipocrisie travestite da buoni propositi che fuorviavano. Falsi doni per altrettante contropartite. Prostituzioni dell’anima per emergere in una guerra tra poveri, false amicizie che si rivelavano dèmoni. Ed ora questo miscuglio velenoso lo aveva reso vecchio e stanco. Ma intravide la valle con la sua luce. Con calma ne annusò i profumi. Si incamminò per raggiungere il gregge che intanto lo osservava soddisfatto.

MENZOGNE







Le menzogne spontanee
ci appaiono nuove sempre.
Ogni volta 
pensiamo di essere noi a fiorire
ma è solo la primavera.
E' signorina da millenni
si mantiene così bella e fresca
perchè spesso la dimentichiamo.
Da tempo so che le affermazioni false
nascono spontaneamente nel cuore
e il fasullo ci accompagna.
E' come l'estate
arriva così
ma ogni volta ci sorprende.
Colpisce sempre alle spalle.
E' nella sua natura.

VIVERE E PENSARE







Non possiamo vivere e pensare se non spezzoni di tempo che s'allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi d'epoca in cui il tempo non appare più come fermo e non ancora esploso. Un'epoca che è durata su per giù cent'anni e poi basta.
Queste erano le riflessioni che gli frullavano in testa in un umido e grigio pomeriggio di novembre, passeggiando nel centro della sua città.
Era parecchio  che mancava. Molte le novità che lo lasciavano ammirato o perplesso. 
E' interessante ed istruttivo ritornare in luoghi da dove manchi da molto tempo.
Mano a mano che passeggiava ritornavano alla mente particolari che risvegliavano ricordi e sensazioni. E gli sovvennero i motivi per cui si  era allontanato dalla città che amava. Amore, disillusione e abbandono. Un po' le solite cause. Ma quella volta era stanco, molto stanco.
Era fuggito per l'ennesima volta. La paura di tempeste in arrivo che lo avrebbero sconvolto. Quella maledetta ansia di non riuscire ad affrontare la realtà lo portava a nascondersi.
Dall'alto di quella fragile instabilità iniziò a percepire cupi boati. Faticava a socializzare. Il fatto stesso di passeggiare a contatto di persone sconosciute lo agitava e inebetiva.
Gli tornava alla mente chi gli aveva rubato il cuore e glielo aveva restituito insanguinato. Un rosso speciale che si era perso in un oscuro sentiero.
La dimensione del tempo si era frantumata.
Buio nell'anima, amore tormentato, rabbioso, furioso....folle. Quel giorno l'effimera luce che lo aveva invaso sparì come d'incanto. Vedeva la città deserta, freddi interiori, brividi di febbre l'invasero. Incredulità e desolazione, notti fredde. Guardava le stelle e si  diceva: Ma brillano ancora! Segno che la vita nonostante tutto sarebbe continuata.
Il teatro era vuoto.
Questa immagine sospesa lo accompagnava per molto tempo. Vedeva e non voleva vedere. Calanti nebbie su anneriti tetti completavano il quadro di quei momenti.
Un filo d'erba fu strappato ancor prima di crescere. Fiore appena sbocciato e già appassito. Al gabbiano tarparono le ali. Non potè più volare e morì.
Capì che la mèta era irraggiungibile e si fermò.
Questi erano i motivi per cui si era allontanato da quella città e piombando in un abisso ancora più profondo.
Ma i casi della vita lo indussero a ritornare. Quanto fu arduo resistere alle tentazioni! Il richiamo delle origini era forte. Il desiderio impellente ma resistette. Ritemprò la mente e il cuore. Rimase un dolce ricordo delle cose belle che per fortuna spesso e per quello spirito di conservazione che ci accompagna ci aiuta ad andare avanti.




martedì 8 dicembre 2015

VOLA L'ECO.....





Vola l'eco delle mie parole
Attraversa mari
Scala montagne
lancia grida.
I segni confusi
Del volo degli uccelli
Avviseranno di quel richiamo.
I merli si racconteranno fiabe
Di cuori morenti
Mentre sul viso
Di due sconosciuti amanti
Nascosti fra neri rami
Gocciola rugiada.
Il loro respiro
Alita nel bosco
E un girotondo di viventi
Disperso nel vento
Inizia a girovagare.
Vola l'eco delle mie parole
Un cuore è morto
per una donna.

SOLITUDINE DOLCE COMPAGNA








La solitudine era per lui quiete, raccoglimento, meditazione. Svaniti i dolori, le pene, gli sgradevoli pianti, le urla bestiali, fu invaso da una calma quasi solenne.
Tuttavia malinconico come lo può essere uno scialbo tramonto, si sedette sul colle. Non aveva più desideri. Era poeta non per ambizione, ma per necessità di spirito e quello stato evocava versi che prorompevano come cascata che nessuno avrebbe potuto bloccare.
Ogni tanto si sedeva, o passeggiava per sentieri, osservando l'ondulata piana che si estendeva fino a toccare la linea dell'orizzonte. 
Era giunto da lontani e sconosciuti luoghi. Aveva tanto camminato ed ora era immerso in quella calma matura di chi non è nessuno e nessuno lo vede.
La sua dimora era nei pressi di un campo spoglio, senza nome e abbandonato. Terra incolta mai seminata da anni.
Non si sa se quel luogo e quel tratturo esiste ancora. Tutto cambia come cambia il mondo. Si fermerà solo quando capirà che gli ultimi neuroni lo stanno abbandonando. E il campo sarà lì pronto ad accoglierlo con tutti i crismi, come un inquilino onorario.
Allora non volerà più, non sognerà più paesaggi delicati. Ma un sogno è rimasto impresso indelebile: la notte pescava nel lago del cuore, s'immergeva in quel liquido senza profumo. Pescava nel torbido e portava in superficie sofferenze e dolori.
Improvvisamente vedeva i suoi tre colori preferiti: verde, giallo e blu. Poi d'improvviso rosso e nero, come fossero peccati da espiare. O forme di nascente follia.
Quei colori esprimevano un stato d'animo, con l'unica consolazione che quella era la via obbligata per riscattarsi. 
Lui, grande amante del bello, pazzo e solare, non sarebbe più riuscito a sognare città alberate, paesi profumati di erba medica appena tagliata, dove la vita è ancora vita!
Ora incontrava solo boschi neri e corvi assatannati predatori di anime.
E' tutto scritto. 
Al risveglio capì di aver lasciato un pezzo di negatività là in fondo. 
Era più leggero! Avrebbe intrapreso un cammino lungo e tormentato ma con una fioca luce che s'intravvedeva in lontananza.

domenica 6 dicembre 2015

FRA MONTE E MARE






Aveva segni e macchie su tutto il corpo. Testimonianze di dolore resistenti nel tempo. Ferite che hanno sanguinato per troppo tempo, sensi di vuoto, vertigini provocate dalla debolezza fisica. In un futuro forse la terra le accoglierà per cancellare tutto.
La metamorfosi avanzava come un rullo compressore e l'abituale agevole sentiero si stava trasformando in un'impervia mulattiera di montagna.
Si accinse ad affrontarla. Doveva riuscire ad oltrepassare quella zona grigia dei momenti quotidiani per poi uscire all'aperto.
La mèta era sconfinare sulla vetta e respirare aria pulita.
Voleva purificare sangue e spirito; i suoi occhi dovevano tornare a risplendere; doveva ritrovare lo spunto per tornare ad amare; commuoversi davanti al tramonto. Con la certezza di essere solo...completamente solo!
La solitudine non era una condanna voluta, ma un dono inestimabile. E' una grande amica.
Lo accompagnava, lo cullava, lo consigliava, lo assisteva, lo profumava, lo amava con la sua costante presenza. Era il suo angelo.
Finalmente giunse in vetta e da là guardò ancora più in alto, al confine delle stelle. Non cercava più nulla, perchè ormai aveva tutto. Il suo bagaglio era la mente, il cuore, il cielo.
Curò le ferite con la visione di quella solitaria cima, alla ricerca di un bene vero.
Il sogno lo portò al mare. Passeggiava su un arenile deserto. La bassa marea lo spinse a scrutare fondali nascosti e misteriosi. Da un vicino scoglio udì un canto d'uccello innamorato e insonne.
S'immerse a nuoto con leggere e cadenzate bracciate; la corrente lo portò verso quel lembo di roccia.
Era solo con i riflessi lunari che trasformavano il suo corpo in un'ombra indistinta.
Paure e ansie erano scomparse. Una calma interiore occupava l'anima ed era in piena libertà di sensi. Ai fragili ed effimeri piaceri ed allettamenti sostituì quei magici momenti.
Con il volto ispirato e rivolto al cielo si godette lo stupendo spettacolo. Sulla sua immobilità la luna stese i suoi raggi leggeri e tiepidi.
Pace e armonia lo invasero Si sentì leggero e fra monte e mare ritrovò me stesso.



LA POESIA E' SOLA








Luna crescente
Lenta 
Sopra nuvole nere.
Fra questi ammassi
La poesia riluce
Si fa strada
Come via lattea
In cerca della mèta.
Anche il sogno
Si mette in cammino.
Attimi e immagini
si susseguono
In leggere sensazioni.
Momento d'amore
Fortuna d'una esistenza.
Una candela accesa
Appoggiato al tavolo
Vedo e ascolto.

mercoledì 2 dicembre 2015

UNA FREDDA SERA





Faceva molto freddo quella sera. Immobile, appoggiato alla balconata, posava lo sguardo al parco buio e alla torretta barocca che s'intravedeva nelle sue scure linee e che tanti ricordi custodiva.
di filo spinato. La voce era fuggita. Forse si nascondeva nel pensiero che lo confondeva.
Intanto la sua anima si riposava sulla luna a bocca chiusa per paura che il sogno volasse via. Era come essere febbricitante, un tarlo che scava a fondo.
Cenere alla cenere senza polvere che brucia.
Vaneggiava nel buio un miraggio di ghiaccio. Non era stagione per occhi brillanti.
La notte era scesa a ricoprire tutto. Provava una sensazione di forte ansia. Iniziò a cercare di sondare l'inconscio alla ricerca di motivazioni non banali.
Ma era troppo faticoso pensare, rivangare, ricordare. Un grosso masso ostruiva quel cammino. Vagava alla ricerca di se stesso senza successo. Era riuscito ad agguantare un lembo della pelle di lei e lo custodiva come una reliquia. Ma la forte corrente degli accadimenti lo stava portando via.
Volse lo sguardo verso la strada deserta che scendeva al centro della città. Poi il vuoto.
La mente pagana prese il sopravvento; ancora una volta aveva vinto. Tentò di indietreggiare ma il sentiero era svanito.